Lavoro, Sindacale, Relazioni Industriali
Contatti
Telefono: 085 4325613 349 9771996
Email: l.follador@confindustriachpe.it
Pubblichiamo in allegato la circolare di Federmeccanica relativa all'aggiornamento dell'indice IPCA NEI relativo all'aumento dei minimi contrattuali di giugno 2024.
Il rapporto tra licenziamento e periodo di comporto è da sempre un tema oggetto di ampio dibattito. Nel corso di quest’anno la Corte di Cassazione è intervenuta a più riprese al fine di chiarire il quadro normativo entro il quale gli operatori sono chiamati a muoversi.
La S.C. ha chiarito anzitutto il rapporto temporale tra licenziamento e superamento del periodo di comporto. Sul punto è stato confermato il consolidato orientamento sulla base del quale mentre nel licenziamento disciplinare l'immediatezza del recesso è imposta a garanzia della pienezza del diritto di difesa all'incolpato, nel licenziamento per superamento del periodo di comporto “l'interesse del lavoratore alla certezza della vicenda contrattuale va contemperato con quello del datore di lavoro a disporre di un ragionevole spatium deliberandi, in cui valutare convenientemente la sequenza di episodi morbosi del lavoratore, ai fini di una prognosi di sostenibilità delle sue assenze in rapporto agli interessi aziendali ” (Cass. 22755/2023).
In altre parole, se da un lato è facoltà del datore di lavoro procedere al licenziamento una volta decorso il periodo di comporto, è altrettanto lecito che lo stesso attenda il rientro in servizio del lavoratore per valutare in concreto se vi siano margini di rimpiego del dipendente all’interno dell’organizzazione aziendale. Di conseguenza, soltanto al rientro del lavoratore in servizio la possibile inerzia del datore di lavoro potrà essere valutata come volontaria rinuncia al licenziamento. Fermo restando, in ogni caso, che spetterà al lavoratore dimostrare che il lasso temporale tra la fine del periodo di comporto e la comunicazione del licenziamento abbia superato i limiti di adeguatezza e ragionevolezza.
Altro aspetto sul quale è intervenuta la S.C. è la computabilità nel comporto delle assenze per malattia professionale o infortunio sul lavoro. Sul punto è stato confermato che al fine dell’esclusione delle suddette fattispecie all’interno del periodo di comporto non è sufficiente che la malattia o l’infortunio siano connessi alla prestazione lavorativa, ma è necessario che gli stessi siano collegati ad una violazione da parte del datore di lavoro degli obblighi di salute e sicurezza ex art. 2087 c.c.
Proprio alla luce di tale impostazione la S.C. ha confermato la legittimità dell’inclusione nel periodo di comporto dei giorni di assenza per infortunio dell’addetta alla mensa dovuti allo scoppio di una vetrinetta scaldavivande. In tale ipotesi, infatti, l’evento è stato assolutamente imprevedibile, pertanto non riconducibile alla responsabilità del datore, avendo riguardo al grado di diligenza esigibile in base alle norme tecniche e precauzionali (Cass. 11136/2023).
Infine, la S.C. si è pronunciata sulla richiesta di trasformazione in ferie dei giorni di malattia, formulata allo scopo di evitare il superamento del periodo di comporto. Secondo i giudici di legittimità alla facoltà del lavoratore di richiedere le ferie maturate e non godute, con il fine di sospendere il decorso del periodo di comporto, non corrisponde l’obbligo del datore di lavoro di accogliere la richiesta laddove vi siano ragioni organizzative di natura ostativa concrete ed effettive (Cass. 26997/2023).
In conclusione, la disciplina del licenziamento per superamento del periodo di comporto si caratterizza per diverse peculiarità che differenziano la stessa dal licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Nell’ambito di tale disciplina, tanto a livello normativo che di elaborazione giurisprudenziale, l’ottica è quella del costante ed effettivo bilanciamento di interessi contrapposti. Interessi rappresentati dal diritto di cura e sostentamento del dipendente e dalla tutela del datore di lavoro non più chiamato a sacrificare la propria organizzazione aziendale oltre un periodo di tempo congruo e tollerabile.
La Corte di Cassazione con Ordinanza n. 30866/2023 è recentemente intervenuta in tema di querela del datore di lavoro da parte del lavoratore.
I fatti a monte della decisione sono relativi alla denuncia da parte di un lavoratore della società datrice di lavoro e del suo rappresentante legale per appropriazione indebita del TFR.
I giudici di merito avevano ritenuto che la denuncia evidenziasse una condotta dolosa in relazione a fatti pacificamente non veritieri. In particolare, la condotta del lavoratore non era diretta ad ottenere l’eventuale condanna del datore di lavoro, ma aveva come unico fine quello di ledere l’onore e la rispettabilità del legale rappresentante della società.
Secondo la Corte d’appello l’avere denunciato un’indebita appropriazione del Tfr con la piena consapevolezza della non veridicità della condotta denunciata integra gli estremi del licenziamento per giusta causa, anche a prescindere dall’effettiva sussistenza di un danno (considerato che la denuncia del lavoratore era stata archiviata definitivamente).
Secondo la S.C., se da un lato l'esercizio del potere di denuncia (e in generale del diritto di critica nei confronti del datore di lavoro) non può essere di per se' fonte di responsabilità, dall’altro, esso può divenire tale qualora il privato faccia ricorso ai pubblici poteri in maniera strumentale e distorta, ossia agendo nella piena consapevolezza dell'insussistenza dell'illecito o dell’estraneità allo stesso dell'incolpato.
L'addebito contestato al lavoratore non è collegato alla configurazione di reato di calunnia o diffamazione, ma alla diversa ipotesi di abuso del processo, ossia strumentalizzazione dello stesso con l’esclusivo fine di arrecare danno al datore di lavoro, desunto, quest’ultimo, dalla consapevole omissione di circostanze significative nella descrizione dei fatti.
Il Testo Unico della sicurezza sul lavoro, D.lgs n. 81/2008, nel disciplinare dettagliatamente la normativa relativa alla sicurezza sul lavoro presenta diverse complessità. A tal fine il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali è dovuto intervenire ripetutamente attraverso Interpelli al fine di chiarire la portata di talune disposizioni.
Una delle previsioni contenute nel D.lgs 81/2008 di maggior rilievo è quella relativa alla figura del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS).
Tale figura, le cui attribuzioni sono elencate in dettaglio all’art. 50, d.lgs 81/2008, è il soggetto al quale la legge demanda il generale compito di controllare e stimolare il rispetto delle regole in materia di sicurezza dei lavoratori da parte del datore di lavoro.
L’art. 47, comma 2, stabilisce come la figura del RLS debba essere eletta o designata in tutte le aziende o unità produttive. Con riferimento all’espressione “unità produttive” si è interpellato il Ministero al fine di chiarire il significato di tale formula.
Il MLPS con l’Interpello n. 4/2023 ha chiarito, in ossequio a quanto previsto dall’art. 2, comma 1, lettera t, d.lgs 81/2008, come con tale espressione deve intendersi “lo “stabilimento o struttura finalizzati alla produzione di beni o all'erogazione di servizi, dotati di autonomia finanziaria e tecnico funzionale”.
La portata di tale interpretazione si riflette concretamente nella circostanza che non tutte le strutture operative di un’azienda presenti sul territorio rappresentino di per sé una "unità produttiva". Da ciò discende come in caso di imprese plurilocalizzate occorrerà valutare in concreto l’autonomia finanziaria e tecnico funzionale delle diverse sedi, fermo restando che vi sia la concreta possibilità di esercizio della funzione, onde evitare che la figura in questione non possa effettivamente esercitare le attribuzioni riconosciutegli dall’art. 50, d.lgs 81/2008.
L’Interpello n. 4/2023 è poi intervenuto in merito al rapporto tra legge ed autonomia collettiva sottolineando, alla luce di quanto previsto dal comma 5, art. 47, d.lgs 81/2008, come sia compito della contrattazione collettiva stabilire Il numero, le modalità di designazione o di elezione del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, nonché il tempo di lavoro retribuito e gli strumenti per l’espletamento delle funzioni.
Da questa prospettiva, occorre tuttavia segnalare come in molti casi la contrattazione collettiva presenti zone d’ombra proprio in ordine all’elezione o designazione degli RLS quando si tratta di aziende plurilocalizzate.
Ad ogni modo tali profili possono trovare una regolamentazione anche nell’ambito della contrattazione collettiva integrativa in quanto incentrata sulle peculiarità e le caratteristiche organizzative dell’azienda, malgrado spesso non sia questo un percorso agevole da compiere.
Il ministero del Lavoro tramite la Commissione per gli interpelli in materia di salute e sicurezza sul lavoro ha chiarito come non sia possibile ridurre, neppure in modo parziale, la formazione obbligatoria a carico dei Rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza (Rls) prevista dall'articolo 37, comma 11, Dlgs 81/2008, il Testo unico in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.
In particolare, l'assessorato dell'Igiene e dell'Assistenza sociale della Regione Sardegna ha avanzato istanza di Interpello in ordine alla possibilità di poter considerare valida la formazione obbligatoria minima prevista per la figura del Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza nel caso in cui, rispetto alle 32 ore stabilite in via iniziale, si realizzi un'assenza del 10% delle ore previste.
Nello specifico l'istante intendeva avere certezza che l'obbligo formativo a carico dell'azienda, per i lavoratori che rivestono la carica di Rls, fosse assolto in caso di un'assenza massima di circa 3 ore rispetto alle 32 teoricamente previste dalla norma. A sostegno di tale tesi si richiama l'analoga possibilità di ammettere un'assenza massima del 10% delle ore di formazione prevista per analoghe figure della sicurezza.
Nella risposta all'interpello, oltre a richiamare il generico obbligo formativo posto a carico di tutti lavoratori, non solo Rls, ex art. 37, comma 1, il Ministero riporta l’attenzione sul diritto del R.L.S. a ricevere una particolare formazione in materia di salute e sicurezza e in merito ai rischi specifici negli ambienti di lavoro, così come definita dal comma 10 del medesimo articolo 37.
Obbligo e portata di tale formazione obbligatoria, precisa il Ministero, vengono fissate dal successivo comma 11, il quale dispone che «le modalità, la durata e i contenuti specifici della formazione del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza sono stabiliti in sede di Contrattazione collettiva nazionale». Il medesimo comma 11 stabilisce, poi, che la durata iniziale della formazione sia pari a 32 ore, di cui 12 sui rischi specifici presenti in azienda, e prevede inoltre che la Contrattazione Collettiva Nazionale, fermo restando il limite minimo di 4 e 8 ore per imprese di dimensioni rispettivamente fino a 15 o superiori a 50 dipendenti, definisca le modalità di effettuazione del relativo aggiornamento periodico.
Attraverso un rimando alla contrattazione collettiva, con riferimento a modalità, durata e contenuti specifici della formazione del R.L.S., la Commissione ritiene che l’articolo 37 del decreto legislativo n. 81 del 9 aprile 2008 preveda già in modo esplicito la durata della stessa senza, quindi, alcuna possibile riduzione dell'obbligo formativo.
Decreto lavoro ed estensione dell’obbligo di sorveglianza sanitaria
Il decreto lavoro 48/2023 estende la sorveglianza sanitaria ma non fornisce al contempo adeguate certezze per il datore di lavoro. In particolare, ai sensi del Dl. 48/2023, art. 14, comma 1, lett. a, viene estesa la sorveglianza sanitaria anche «qualora richiesto dalla valutazione dei rischi di cui all'articolo 28» del Dlgs 81/2008.
Tale previsione si scontra con il quadro normativo vigente, perché l'articolo 41, comma 3, lettera c) del Dlgs 81/2008 non consente le visite mediche nei casi vietati dalle leggi, tant'è che sono previste sanzioni per il datore di lavoro e per il medico competente. Oltre al fatto che la sorveglianza sanitaria opera in deroga al divieto generale di accertamenti sulla idoneità e sulla infermità del dipendente contenuto nell'articolo 5 della legge 300/1970.
Estendere l'obbligo di sorveglianza sanitaria in base alla valutazione dei rischi, da un lato comprime, in modo indeterminato, quanto previsto dalla legge 300/1970, dall'altra determina criticità sulla responsabilità penale del datore di lavoro. Inoltre la necessità o meno della sorveglianza sanitaria sarebbe rimessa alla valutazione di ciascun medico, impedendo di individuare con certezza, sulla base di una norma di legge, il confine tra lecito e illecito.
A ciò deve aggiungersi come il coinvolgimento del medico competente nella valutazione dei rischi ai fini della necessità o meno della sorveglianza sanitaria, con eventuale individuazione dei casi, potrebbe avere ricadute in ambito di privacy e in merito ai giudizi di inidoneità alle mansioni quale conseguenza dell'aumento degli elementi presi in considerazione ai fini dei giudizi stessi.
Quanto alla nuova previsione in base alla quale, in occasione delle visite di assunzione, il medico «richiede al lavoratore la cartella sanitaria rilasciata dal precedente datore di lavoro e tiene conto del suo contenuto ai fini della formulazione del giudizio di idoneità», se da una parte consente di avere maggiori informazioni per valutare l'idoneità del lavoratore alla mansione, dall'altra non prevede un obbligo di consegna della cartella medica da parte di quest'ultimo (malgrado il dossier del servizio studi del Senato suggerisce di valutare eventuali sanzioni per il medico che non chiede il documento).
Seguici attraverso i nostri canali social
Via Raiale, 110/bis
65128 Pescara (PE) - Italy
Tel: 085 432 551
Fax: 085 432 5550
email: info@confindustriachpe.it
PEC: confindustriachpe@pec.it
Codice Fiscale: 80000150690