Da "Il sole 24 ore"

La Corte di Cassazione con Ordinanza n. 30866/2023 è recentemente intervenuta in tema di querela del datore di lavoro da parte del lavoratore.

I fatti a monte della decisione sono relativi alla denuncia da parte di un lavoratore della società datrice di lavoro e del suo rappresentante legale per appropriazione indebita del TFR.

I giudici di merito avevano ritenuto che la denuncia evidenziasse una condotta dolosa in relazione a fatti pacificamente non veritieri. In particolare, la condotta del lavoratore non era diretta ad ottenere l’eventuale condanna del datore di lavoro, ma aveva come unico fine quello di ledere l’onore e la rispettabilità del legale rappresentante della società.

Secondo la Corte d’appello l’avere denunciato un’indebita appropriazione del Tfr con la piena consapevolezza della non veridicità della condotta denunciata integra gli estremi del licenziamento per giusta causa, anche a prescindere dall’effettiva sussistenza di un danno (considerato che la denuncia del lavoratore era stata archiviata definitivamente).

Secondo la S.C., se da un lato l'esercizio del potere di denuncia (e in generale del diritto di critica nei confronti del datore di lavoro) non può essere di per se' fonte di responsabilità, dall’altro, esso può divenire tale qualora il privato faccia ricorso ai pubblici poteri in maniera strumentale e distorta, ossia agendo nella piena consapevolezza dell'insussistenza dell'illecito o dell’estraneità allo stesso dell'incolpato.

L'addebito contestato al lavoratore non è collegato alla configurazione di reato di calunnia o diffamazione, ma alla diversa ipotesi di abuso del processo, ossia strumentalizzazione dello stesso con l’esclusivo fine di arrecare danno al datore di lavoro, desunto, quest’ultimo, dalla consapevole omissione di circostanze significative nella descrizione dei fatti.

La Corte di Cassazione attraverso l’ordinanza 29337/2023 è intervenuta in materia di licenziamento del lavoratore a causa di rifiuto dello stesso in ordine al passaggio da contratto a tempo parziale a contratto a tempo pieno.

Nello specifico, secondo la Suprema Corte in siffatte ipotesi sussiste in capo al datore di lavoro un doppio onere probatorio ai fini del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Con l’ordinanza 29337/2023 viene chiarito che nel caso in cui il lavoratore rifiuti la trasformazione del contratto da part time a full time, spetterà al datore di lavoro provare, oltre alla effettività delle esigenze aziendali alla base del licenziamento e alla indisponibilità di mansioni alternative, l’impossibilità di continuare ad utilizzare la prestazione a tempo parziale.

In altre parole, secondo la S.C. il divieto di cui al d.lgs. 81/2015, in base al quale “Il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale, o viceversa, non costituisce giustificato motivo di licenziamento”, non è ostativo, in assoluto, rispetto al recesso datoriale.

Nel caso sottoposto ai giudici di merito, una dipendente si era vista dichiarare nullo il licenziamento da parte del giudice di appello, sul presupposto che lo stesso fosse stato intimato con finalità ritorsive rispetto al rifiuto della lavoratrice di trasformare il proprio contratto da part time a full time. La S.C. nel riformare la decisione, ha sottolineato come il controllo del giudice di merito nelle suddette ipotesi è limitato esclusivamente alla verifica che la sostituzione del dipendente a tempo parziale con il dipendente a tempo pieno sia l’unica soluzione possibile per soddisfare le nuove esigenze organizzative dell’azienda.

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